“Pesa più un chilo di ferro o un chilo di paglia?”
Era questa la domanda trabocchetto che si usava molto ai miei tempi, nelle conversazioni frivole e quotidiane, e spesso capitava che chi rispondeva lo faceva senza pensarci troppo cadendo nel tranello del gioco di parole. Una risata, una pacca sulla spalla, un occhiolino di intesa e tutto finiva lì.
Il giorno dopo o anche cinque minuti dopo, si cercava un’altra “vittima” da far cadere in trappola, giusto per fare due risate e passare il tempo libero in leggerezza. Succedeva in strada, nei cortili, davanti alle scuole o sul sagrato delle chiese: ogni posto era buono per “conviviare”, ma non a base di piatti succulenti, bensì di chiacchiere consumate, piluccate, assaporate, come fossero pietanze deliziose.
Ed anche allora c’erano i gruppi di appartenenza: gli amici della scuola, quelli del catechismo, quelli della strada di residenza, fino ad arrivare a quelli del cortile o della corte dove si abitava. Ovviamente c’erano gli amici preferiti, che si frequentava con maggior piacere e tra questi spiccava l’amico del cuore, colui che custodiva gelosamente i nostri segreti più intimi e conosceva pene d’amore e sogni fatti di voli pindarici.
Io, nel mio quotidiano fortunato vivere, ne ho avuti più d’uno, ognuno legato ad un particolare periodo o ambiente che ho frequentato; di tutti loro mi ricordo sempre il piacere, spesso inconfessato, dell’attesa dell’incontro.
Soventemente, avendo progetti comuni, capitava che ci si incontrava più volte al giorno, ma il momento mio preferito era la sera, quando magari si approfittava per tirare le somme di ciò che si era fatto durante il giorno, raccontandosi aneddoti vissuti in altri posti, ambienti.
Era il modo di “chattare” di allora ma con una grandissima differenza: lo si faceva “face to face” godendo del cambiamento di espressione, fatto di sguardi crucciati o di sorrisi malcelati, di smorfie divertenti oppure di “friggimenti” sui carboni ardenti mentre si pendeva dalle labbra del momentaneo narratore.
Ci si raccontava anche un mucchio di sciocchezze e capitava che qualcuno, pur di sembrare più grosso di quello che effettivamente era, gonfiava il collo come un rospo in calore, ammollandoci bugie grosse come case spacciandole per oro colato. Questi distributori di “fake news” erano “carte conosciute” ed ognuno prendeva con le pinze le loro mirabolanti notizie, che venivano attribuite di volta in volta a personaggi di sicuro affidamento.
Salvo poi le successive smentite che avvenivano sempre alla luce del sole, mettendo alla gogna il “pallista” svergognandolo pubblicamente. Era l’epoca in cui il tempo si poteva ancora definire galantuomo, perché alla fine ristabiliva sempre la verità, riparava i torti e medicava ogni ferita: citando un’ode di manzoniana fattura, erano i posteri ad emettere le sentenze, anche le più ardue.
Oggi no. Nell’epoca in cui tutto è effimero, quando si passa dalla gloria alla polvere al ritmo dei “post” sui social, è diventato tutto più aleatorio: la verità non è vera neanche quando la puoi constatare con i tuoi occhi, altrettanto si può dire delle bugie o delle false verità.
Ormai non sono più le persone reali ad emettere le sentenze, tra chatbot ed assistenti virtuali, i social sono colmi di vuoto ed un post (messaggio testuale, con funzione di opinione o commento o intervento, inviato in uno spazio comune sul web per essere pubblicato – fonte Wikipedia) può cambiare radicalmente le opinioni di chi legge.
A costo di far rivoltare Manzoni nella tomba mi consta, e mi costa non poco, ammettere che non sono più i posteri ad emettere le ardue sentenze, sono i post, croce e delizia dei moderni divulgatori, a giudicare, con i “like” ricevuti, i commenti a risposta, le condivisioni trasversali. Una volta si era soliti dire: “Lo ha detto il telegiornale…”