Un tempo l’estate era estate, faceva caldo e si cercava l’ombra; ma era un caldo secco, anche piacevole ed invitava alla tranquillità. Il mondo rallentava, e non c’era la frenesia delle ferie per forza, delle località tropicali da raggiungere, ci si limitava ad un bagno domenicale alla spiaggia libera di Pozzano, quando andava bene.
Ovviamente non c’era scuola, le lezioni cominciavano e terminavano ogni anno lo stesso giorno, era come una sentenza che non cambiava per regione o per indirizzo di studio, ed il tempo che per quasi nove mesi si passava tra i banchi, in estate bisognava riempirlo con altre cose da fare.
Chi, come me, aveva la fortuna di vivere in periferia non doveva cercare un posto per giocare, la strada era il nostro “campo da gioco”: a pallone o a nascondino, a campana o con le figurine, si trovava sempre un po’ di spazio per noi, anche a costo di spostare le “porte da calcio” (in genere segnalate semplicemente con qualche sasso o una maglietta) al passaggio delle rare automobili.
Non c’era bisogno di prendere appuntamento, si usciva in strada e subito si creavano i capannelli per formare le squadre che si sarebbero affrontate in interminabili partite. Il più delle volte non si chiedeva neanche il permesso alla mamma perché era lei stessa, con un affettuoso scapaccione, a mandarci via per liberare casa e poi affaccendarsi.
In quelle focose mattine e negli ardenti pomeriggi quando il sole sembrava sciogliere l’asfalto, c’era un momento che ognuno di noi aspettava con impazienza. Quasi sempre alla stessa ora compariva in fondo alla strada, un piccolo triciclo, con il cassone adattato ed addobbato.
Di colore bianco con la scritta gialla, avanzava piano fino a che noi non si indovinava l’ornamento fatto di limoni di plastica che pendevano oscillando, mentre promettevano quell’acre freschezza che di lì a poco ci saremmo gustati. L’autista si fermava sempre nello stesso posto e mentre scendeva dalla “cabina” di guida, si portava alla bocca una specie di fischietto che nella forma e nel suono che produceva (ma questo l’ho scoperto molto più tardi), richiamava il flauto del dio greco Pan.
Noi eravamo spariti tutti, non per paura o chissà cos’altro, semplicemente come saette ci eravamo precipitati in casa per chiedere, ed il più delle volte ottenere, una moneta da 20 lire che serviva per pagarci un tuffo nella freschezza di un delizioso gelato a limone! Che altro non era se non una granatina fatta di ghiaccio sottile che, grazie alla chimica ed alla fisica (anche questo l’ho scoperto e capito molto dopo), si formava sulle pareti di rame di una specie di alto paiolo che “l’artista” faceva sapientemente ruotare in mezzo a zolle di ghiaccio adagiate in un contenitore ancora più grande.
Lui, grazie ad una “cucchiarella”, anch’essa di rame, lo raccoglieva con movimento ordinato dal basso verso l’alto e poi lo sistemava nella piccola coppetta fatta di cialda di biscotto; noi in una rumorosa fila aspettavamo il turno e prendevamo quella pausa come oggi durante le partite estive di calcio, i giocatori fanno il cosiddetto “cooling break”.
Ho tramandato quella tradizione ai miei figli, che nella loro adolescenza aspettavano anch’essi con ansia l’arrivo di Alfonso il gelataio, non più giocando in strada sotto casa mia, che ormai essendo diventata di collegamento e quindi molto trafficata, non consentiva più di giocare in alcun modo, loro invece se ne stavano nel cortile, affacciandosi di tanto in tanto come lucertole dalle feritoie dei muretti a secco; e quando lui arrivava, un poco invecchiato ma sempre arzillo e sorridente, lo apostrofavano con un delizioso: “E Fò, ci fai il gelato?” E lui ne ha fatti di gelati fino a qualche anno fa. Mi dispiace che i miei nipotini non potranno gustare un mondo che non c’è più; quel mondo racchiuso nella coppetta di un gelato, guarnito con la scorzetta di limone quasi a voler testimoniare della sua genuinità; quel mondo semplice, vero, indimenticabile, che ha forgiato la mia generazione.
Ciao Alfonso, mi auguro che tu possa riposare all’ombra dei limoni, freschi e profumati, come quelli che usavi tu.
Nel ricordo di Alfonso Alfano.